Con Napoli Explosion il reportage si fa arte
Un’intervista di Domenico Marcella
Il messaggio che Mario Amura veicola attraverso le sue opere è una spinta a guardare oltre le apparenze per poter raggiungere vette inesplorate, e scorgere oltre i codici della canonicità visiva una più sensazionale bellezza. Fotografo, direttore della fotografia e visual artist, Amura da oltre dodici anni trascorre una parte della notte di Capodanno sul Faito, la montagna che si staglia sul Golfo di Napoli – davanti al Vesuvio – con la macchina fotografica in mano. Non ha alcuna necessità di scattare per mettere l’accento sull’evoluzione del tessuto urbano partenopeo, né per narrare il poliedrico teatro cittadino che da anni continua a ispirare pellicole e romanzi. Affiancato dalla sua fedelissima troupe, immerso in quel che è considerato uno dei posti più affascinanti d’Italia – unico per interesse geologico, naturalistico e storico – immortala per consegnare alla storia delle immagini l’effetto sfavillante sul vulcano della festosa carrellata di fuochi d’artificio: l’antico rituale che col boato assordante scaccia via gli spiriti maligni che disseminano la malasorte, e con il bagliore variopinto attira quelli buoni. Come un artista cittadino dei cieli mosso da una sincera volontà di portare il proprio sguardo quanto più lontano dalla realtà, ricercando inedite affinità tra fotografia e pittura, Amura rompe il ghiaccio raccontandoci di quando da adolescente, a Torre Annunziata, ogni mattina apriva la finestra della sua camera da letto per rivolgere un saluto reverenziale al Vesuvio: una presenza viva – seppur silente da circa ottant’anni – alla quale chiunque abiti alle sue pendici si sente estremamente legato. La scintilla di quella che oggi è una vera e propria missione artistica, però, l’ha avuta nel 2006, quando per la prima volta ha trascorso la fine dell’anno su quelle alture: «Lo spettacolo pirotecnico al quale ho assistito mi ha fatto riflettere sul legame fra le esplosioni effimere e la paura che a esplodere fosse la potenza sopita del vulcano. Qualche anno più tardi, nel 2010, ho iniziato a osservare i festeggiamenti dalla cima del monte Faito. Quello scenario riesce a sovvertite l’iconografia classica delle gouaches o dei capolavori di William Turner, Joseph Wright of Derby, Pierre-Jacques Volaire, William Marlow e Andy Warhol: il vulcano in eruzione tinteggiato dalla lava che lo inonda che appare al contrario, come un’ombra immobile, immersa in un paesaggio che sembra esplodergli attorno, confondendo la percezione di micro e macrocosmo».
Il tuo è un progetto fotografico dal titolo evocativo: Napoli Explosion. Parliamone.
Ciascuno di noi, da bambino, aveva la fantasia di avere un super-potere. Io sognavo il dono dell’invisibilità. Questo desiderio è stato il motore che mi ha spinto a scegliere una professione, quella del fotografo, che mi ha permesso di entrare in contatto con persone e mondi lontani, alla ricerca di una verità che, seppure guidata da un punto di vista forte, è il risultato di osservazioni più che di una elaborazione interiore. Fotografare dal vero permette di raccontare chi sei attraverso quello che osservi piuttosto che attraverso ciò che evochi da dentro. Uno dei valori principali del progetto Napoli Explosion, credo risieda nel suo essere testimone di una performance collettiva che il popolo napoletano inscena dinanzi alla fotocamera. Certo, io e la mia troupe giochiamo molto in fase di scatto disegnando con le luci dei fuochi d’artificio; ma, come in ogni opera di fotografia dal vero, resta fermo che solo in quell’unità di tempo, la notte di Capodanno, e da quel determinato punto di osservazione, la cima del monte Faito, è possibile immortalare quell’evento.

Il pubblico ama sentirsi coinvolto dall’esperienza dell’arte. È una magia che non sempre accade, perché a discapito di quello che la subcultura asservita al mercato in cui siamo immersi vuole farci credere, non tutto è arte, e non tutto riesce a generare reazioni positive. Le opere che compongono Napoli Explosion funzionano. Perché?
Ho lavorato per molti anni nel cinema, e attraverso quella forma d’arte si è naturalmente proiettati a coinvolgere un pubblico quanto più largo possibile. Il mondo dell’arte contemporanea produce spesso esperienze provocatorie, a volte non comprensibili da un pubblico ampio, che fondano il loro successo più sulla ricerca di riverenza che sulla condivisione. Un po’ come nella favola I vestiti nuovi dell’Imperatore di Hans Christian Andersen. Napoli Explosion ha coinvolto emotivamente molti, e credo che ciò dipenda dal senso di coralità che trasuda. Le grandi dimensioni delle opere e l’uso particolarmente funzionale del colore sono elementi formali che hanno contribuito a questo consenso generalizzato.
Va detto: la tua non è un’arte che si fa portavoce di dissenso o denuncia sociale. Sei parte di quegli artisti che hanno finalmente tranciato il ritornello sull’arte che deve per forza sensibilizzare e smuovere le coscienze.
Parto da una netta differenza che faccio tra coloro che fotografano per denunciare, e coloro che fotografano ciò che amano. Appartengo alla seconda categoria. Per me l’impegno non può che manifestarsi in un profondo atto di riconoscenza e amore per quello che si decide di immortalare. Se pensiamo alle immagini di Henri Cartier-Bresson, riconosciamo in ogni suo scatto lo sguardo sedotto dal mondo e un punto di vista sempre umile, non invaso dall’ego che denuncia. Anche nella foto scattata a Dessau – in cui una prigioniera del campo riconosce colei che l’ha denunciata alla Gestapo – si avverte la pietà prima della denuncia. L’unico modo per smuovere le coscienze è emozionare, e quello che ricerco è la condivisione di ciò che mi emoziona.
Oltre a Cartier-Bresson, da chi ti fai ispirare?
Ho avuto molti maestri, ma sicuramente il più importante è stato Giuseppe Rotunno, che amava ripetere: «Bisogna essere consapevoli dei propri limiti». Questa affermazione, detta da un uomo che ha fatto della sfida costante ai limiti la sua missione, sembra quasi un paradosso. Col tempo ho compreso che l’unico modo per conoscere i propri limiti consiste proprio in questa sfida costante a essi, attraverso una provocazione determinata e continua, fino a raggiungerli e magari accettarli.
Il progetto Napoli Explosion, però, non sembra avere alcun limite. La sua marcia ha raggiunto due importanti luoghi dell’arte partenopea.
Sì. Sylvain Bellenger ha deciso di concludere la sua esperienza di direttore generale del Museo e Real Bosco di Capodimonte con la mostra Napoli Explosion, definendo il progetto una festa per il millennio appena iniziato. Bellenger è rimasto particolarmente colpito dal fatto che nell’era dell’intelligenza artificiale e della manipolazione totale dell’immagine, sia stata la fotografia – la forma più antica di catturare la realtà – a dimostrarsi la più immaginifica. In seguito un’opera del progetto (Vesuvio Napex 7303222) è entrata a far parte della collezione permanente di arte contemporanea del Pio Monte della Misericordia, l’autorevole museo che custodisce le Sette Opere di Misericordia del Caravaggio.
In quale direzione si muoverà la tua ricerca artistica dopo l’esperienza di Napoli Explosion?
Lavoro da decenni a dei progetti ancora inediti, che esplorano i confini tra fotografia e cinema, cercando di intersecare la fissità del tempo di un’immagine fotografica e il fluire del tempo filmico. Uno di questi è Sleepers, che – sulla falsariga de L’odore dell’India di Pier Paolo Pasolini – esplora il sonno dei dormienti per le strade di Nuova Delhi. Un altro lungo viaggio, iniziato nel 2010, perlustra la Cina povera, e dal 2012 sto tessendo la trama di un racconto visivo sui Fujenti: i devoti al culto della Madonna dell’Arco (venerata a Sant’Anastasia, Napoli) che rappresentano il più vistoso fenomeno extra-liturgico della Campania. Un tema, quest’ultimo, già affrontato da Mimmo Jodice e Roberto De Simone nel meraviglioso Chi è devoto, e che ho scelto di trattare in maniera diversa, continuando a fotografare il rituale – ormai da tredici anni – per narrare il cambiamento sul volto dei credenti: bambine che diventano donne, uomini che diventano anziani. Il punto in comune di tutti i miei progetti è la documentazione della realtà attraverso uno sguardo empatico con l’ambizione di riuscire a coinvolgere sia pubblico che il mondo dell’arte, che troppo spesso ha considerato il reportage una sorella minore nel panorama dei progetti di fotografia contemporanea.
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