di Giovanni Ruggiero
I fuochi d’artificio li immaginiamo che danzano nel cielo a gareggiare con le stelle. Salgano in alto, poi si lasciano andare, si abbandonano, infine muoiono nella notte, come Narciso nel lago in cui si è specchiato.
Questi qui sono leziosi ballerini, non spiriti impazziti che si scatenano e danzano forsennati, come i fuochi d’artificio che Mario Amura fotografa da quattordici anni sotto il cielo di Napoli, davanti al Vesuvio. Nei venti minuti, a partire dallo scoccare della mezzanotte del 31 dicembre, è come una danza propiziatoria. Tutto esplode in una sarabanda luminosa. E quando questo accade, dal 2010 il fotografo si fa trovare lì, sul Monte Faìto che guarda sul vulcano – sagoma nera lontana – e sulla spianata di cemento dei Paesi Vesuviani. Presto tutto diventerà un magma luminoso, sgargiante, infuocato.
Accompagnano Mario Amura, alcuni amici di sempre per un’opera aperta, collettiva, ancora non conclusa, che seguono le sue indicazioni. Il fotografo guida i loro scatti, gli amici l’assecondano. Sono importanti i tempi lunghi di esposizione ed il movimento impresso alla macchina fotografica che ora ondeggia, ora oscilla, ora compie sbalzi, adesso dondola. Sicché le luci dei fuochi, ben distinte nel cielo nero, si amalgamano, si fondono, e lasciano immaginare un’apocalisse, come sarebbe se il Vesuvio dovesse esplodere e ribellarsi.
Si chiama “Napoli Explosion” (o “NapEx”), questo “reportage collettivo” che supera la banalità della figurazione. Proprio come un vero reportage, parte dalla realtà, però subito la trasfigura. “NapEx” è la documentazione fantastica e magica di un avvenimento reale.
Questa distesa a perdita d’occhio di cemento è però fatta di persone con sentimenti, paure, desideri, aspirazioni. Bisogna pensare che dietro ogni luce, grande o piccola, e ad ogni bagliore c’è un uomo che esprime ed esorcizza, con questi fuochi, la sua paura verso il temuto ed amato vulcano chiamato ‘A Muntagna dai napoletani. «Mentre il Vesuvio tace – dice Amura – la città si scatena in un rito propiziatorio ed anche scaramantico per scongiurare che esploda. Alberto Saporito delle “Voci di dentro” di Eduardo interpreta l’anziano Zi’ Nicola che, rinunciando alla parola, si esprime solo sparando mortaretti. Io come lui, dal modo in cui decidono di sparare botti e fuochi, mi pare di riconoscere i moti di speranza, la paura, l’allegria e la rabbia della gente.»
Questa grande opera, che definisce per Mario Amura una coniugazione nuova del suo essere artista e fotografo, offerta in grandi immagini (1,60×2,40m) montate su lightbox che le accendono, è stata presentata al Museo di Capodimonte, nella penombra del “Cellaio” la sala che fungeva da notte di Capodanno. «Napoli Explosion – ha scritto per l’occasione Sylvain Bellenger – è un’opera nella quale la fotografia, la pittura, l’arte pirotecnica convergono in un solo e unico evento. Il tema principale non è il Vesuvio, che appare come un’ombra silenziosa, quanto la città sommersa da fuochi d’artificio capaci di trasformare la paura in gioia. Ciò che Amura ha voluto vedere, nel tempo, è il rapporto tra la fotografia e la pittura. Il legame tra la fotografia e la luce è diventato il tema del suo lavoro. Bisogna guardare a lungo queste immagini, immergersi in esse.»
Due opere di Mario Amura resteranno a Napoli che è stata ed è la citta/teatro dei suoi fuochi d’artificio. “NapEx 223181” con il Vesuvio imponente che sembra fluttuare in un magma incandescente, pubblicata in queste pagine, è entrata a far parte della collezione del Museo e Real Bosco di Capodimonte. Un’altra opera, invece, è nel patrimonio del Pio Monte della Misericordia. Sarà esposta nel seicentesco palazzo del centro storico che custodisce tra altri capolavori la grande tela di Caravaggio delle Sette Opere di Misericordia.


In “NapEx” convergono le due strade che, combinandosi, hanno portato Mario Amura alla fotografia. Prima di tutto Henri Cartier-Bresson: lo incontra che è ragazzo, poi il cinema proprio come accadde allo stesso maestro francese che fu assistente di Jean Renoir. «Compresi dalle sue foto- grafie – dice Amura – quanto potesse essere potente uno scatto, ed evocativa ogni singola immagine. Il bello della fotografia, rispetto ad altre forme espressive, è che ti permette di raccontare quanto hai dentro attraverso qualcosa che sta avvenendo fuori di te.»
Mario Amura, in sostanza, poco più che ventenne, vuole “imparare a vedere”. Prima di Cartier-Bresson è come se non avesse mai visto quanto aveva di fronte. «Osservavo tutto con distrazione emotiva – dice – lui era invece capace di raccontare di una vita che mi scorreva davanti e che io non sapevo cogliere. Fotografare migliora la percezione visiva delle emozioni e segna il punto di coincidenza tra ciò che avviene fuori e ciò che senti dentro.»
Questa lezione è ben evidente in tutte le sue prime immagini che ha raccolto nel volume “Fotografie 1995–1999”. «Mario Amura – scrive Serenella Iovino nella postfazione – si muove tra le immagini con curiosità e discrezione. Per immagini, racconta la sua ricerca, il suo vedere, i suoi confini. Amura osserva, e non è mai “visionario” o “metafisico”. Si muove tra le cose senza indugiare, e lascia che si raccontino senza enfasi, senza concessioni estetizzanti al frammento. Le sue foto non sono taccuini visivi, ma immagini estranee a un percorso biografico individuale. Sono segni di un vissuto più profondo, impersonale, collettivo: quello stesso che troviamo in “Sud e magia” di Ernesto De Martino. Del Sud – aggiunge – gli interessano i fenomeni sotterranei e pagani, quelli che si depositano e si cristallizzano nella memoria collettiva “cristiano- popolare”: un neorealismo di ascendenza pasoliniana.»
I suoi reportage in giro per il mondo (Wuyuan, Londra, New Delhi. Istanbul, Kiev, New York sono alcune sue mete), sono stati realizzati con l’occhio umile. L’umiltà dello sguardo sta nell’entrare nelle vite degli altri senza presunzione, senza incrinare equilibri di una qualsiasi esistenza. In queste vite, Mario Amura entra in punta di piedi. Si veda ad esempio quanto siano rispettose le immagini di “Sleepers” che ritraggono nell’abbandono del sonno i poveri di New Delhi. «Il fotoreportage – dice – è l’unica forma di fotografia che mi interessa. Alla fotografia che ricostruisce, allestisce, ridisegna spazi e situazioni preferisco quella che attinge completamente al reale.»
Questa umiltà con cui ha realizzato i tanti reportage – c’è chi dice della sua capacità di rendersi invisibile nel fotografare per dare la possibilità al mondo fotografato di esprimersi – Mario Amura l’ha appresa dal cinema. Dopo la scoperta di Bresson, e come aveva fatto Bresson, bussa alle porte del cinema. Segue i corsi del Centro Sperimentale di Fotografia ed in particolare le lezioni di Peppino Rotunno. Il grande direttore della fotografia iniziava la giornata con gli allievi leggendo brani di romanzi, poi immaginava come metterli in scena, nella chiave più efficace. «Questo esercizio di traduzione da pagina scritta in immagine filmata – dice il fotografo – mi ha fatto capire che l’umiltà dello sguardo risiede nel saper adeguare il proprio occhio alla storia da raccontare, alla realtà da documentare. Rotunno mi ha insegnato che il direttore della fotografia rassegna il proprio io sull’altare della storia da raccontare.



In definitiva ho imparato a fare questo lavoro nel cinema per imparare a vedere con occhi diversi dai miei.» Nel2003 con il cortometraggio “Racconto di Guerra”, Mario Amura ha vinto il David di Donatello ed ha poi firmato la fotografia per molti registi come Luca Guadagnino, Paolo Sorrentino, Vincenzo Marra, Sabina Guzzanti, Paolo Genovese.
Fotografia/reportage e Cinema/ movimento: due approcci che negli anni non si sono mai distaccati; in un modo o nell’altro, si sono confrontati, si sono fatti il verso. “NapEx” è una sinfonia di movimenti fermati nel tempo. Ogni singola opera è un frame di energia fissata nello spazio. Così come movimento cinematografico e fissità fotografica confluiscono nel progetto “StopEmotion”. «Con l’avvento del digitale, – dice Amura – ho iniziato a sperimentare percorsi narrativi con l’utilizzo di flussi di fotografie scattate in sequenza. Con questo realizzo performance live in cui visualizzo le immagini assecondando il ritmo della musica che fa da tappeto emotivo.»
Tutto è movimento. Le immagini danzano, come nella sarabanda dei fuochi intorno alla totemica montagna.
